VILLALAGO
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Fiume Sega - Lago di San Domenico - 1992


Indice paragrafi:


ELIANO LUPI

La seguente poesia è stata premiata, il giorno 23 giugno 2001, al 1° Concorso Regionale di Poesia Dialettale "Romualdo Parente", sezione B, riservata agli alunni delle Scuole di 2° grado. Il concorso è stato indetto dal Comune di Scanno e dall'Istituto Comprensivo "Valle del Sagittario".
La Ch'scure

E' bielle camenà
Sotte i raggi de le sole,
fra le fratte de la campagne,
i retruvarme a la Ch'scure:
ne poste de pace i de serenità.
Da le sprefunne de la valle,
andò ne fremete de viente
accarezza le fojie,
le chiare cascatelle
zompane da la roccia
e i frische revulitti
me mbunnene l'anema,
la Villa, appuggiata sopra a la muntagne,
pare che vole bacià le ciele azzurre.
I pure i lievece eucielle,
che sfiorane le cime de i derupe,
guardane la magia de la nature.
Ecche sopra,
le rumore de l'acqua che schiuma
copre tutte i rumore de le munne;
loche sotte,
mmiezze a le onde de le lache,
ce reflette la chiesetta silenziosa e pia
i me fa tante penzà.
A la fonte de le Saggittarie,
mmiezze a tanta bellezza,
l'anema me ce rencora
i so pronte a repeglià
le cose de tutte i iuorne.
La Frescura

E' bello camminare
sotto i raggi del sole,
fra le siepi della campagna,
e ritrovarmi alla Frescura:
un luogo di pace e di serenità.
Dalla profondità della valle,
dove un fremito di vento
accarezza le foglie,
le chiare cascatelle
schizzano dalla roccia
e i freschi rivoletti
bagnano la mia anima,
Villalago, appoggiata sopra la montagna,
sembra che voglia baciare il cielo azzurro.
E perfino i leggeri uccelli,
che sfiorano le cime dei dirupi,
osservano la magia della natura.
Qui sopra,
il fragore dell'acqua spumeggiante
copre tutti i rumori del mondo;
lì sotto,
fra le onde del lago,
si riflette la chiesetta silenziosa e pia
e mi induce a meditare.
Alla sorgente del Sagittario,
fra tanta bellezza,
l'anima mia si rincuora
ed io sono pronto a riprendere
le attività quotidiane.


La Ch'scure

E' bielle camenà
Sotte i raggi de le sole,
fra le fratte de la campagne,
i retruvarme a la Ch'scure:
ne poste de pace i de serenità.
Da le sprefunne de la valle,
andò ne fremete de viente
accarezza le fojie,
le chiare cascatelle
zompane da la roccia
e i frische revulitti
me mbunnene l'anema,
la Villa, appuggiata sopra a la muntagne,
pare che vole bacià le ciele azzurre.
I pure i lievece eucielle,
che sfiorane le cime de i derupe,
guardane la magia de la nature.
Ecche sopra,
le rumore de l'acqua che schiuma
copre tutte i rumore de le munne;
loche sotte,
mmiezze a le onde de le lache,
ce reflette la chiesetta silenziosa e pia
i me fa tante penzà.
A la fonte de le Saggittarie,
mmiezze a tanta bellezza,
l'anema me ce rencora
i so pronte a repeglià
le cose de tutte i iuorne.


Frescura

How nice is to walk
in the sunshine
along the thorn bushes
and find myself at "Frescura"
a place where peace and serenity reign.
From the depths of the valley,
where a shiver of wind
caresses the leaves,
the clear spring waterfalls
gurgle from the rocks
and the cool streamlets
bathe my soul,
Villalago, perched on the mountainside
seems to be kissing the blue sky.
Even the weightless birds
that skim along the cliff's heights
watch the magic of nature.
From above,
The rushing of the foaming waters
covers all the other noises on earth;
down below,
in the lake's waves
the silent and pious little church is mirrored
and insipires me to meditate.
Where the river Sagittario springs,
immersed in such beauty,
my soul rises up
and I'm ready to resume
my daily life


La poesia seguente è stata premiata con la menzione d'onore dalla Giuria della II edizione del Concorso Regionale di Poesia Dialettale "Romualdo Parente" sez. B riservata agli alunni delle Scuole di secondo grado. (5 giugno 2002)
Vojia de campà

Sotte ne ciele tinte de blu,
chiene de stelle luccechente,
'nghe la luna che reflette la bianca luce,
cencelune de neve,
purtate da ne viente fridde
che pingeca la faccia
i zoffela sopra le core meje chiene d'amore,
ce posane piane piane sopra le 'ncantate lache gelate
'ncurenate da muntagne 'mbiancate.
Tutte è quiete,
tutte è candore,
tutte è purezze.
Le Saggittarie, intante,
'nghe le rumore seje che pare na musica
che rendonna mmiezze a le strette gole,
scorre schiuorte verse
l'immense mare de i desideri
i me dona battete de core chiene de vita.
Queste è la Villa,
le bielle paese meje,
chiene de tristezze i de cuntentezze,
de silenzi i de sune,
de 'mmagginazione i de realtà,
de 'ndefferenze i d'emozione,
de suonne i de certezze
che danne all'anema me'
la vojia d'amà,
la vojia de dunà,
la vojia de campà 'ntensamente la vita.
Voglia di vivere

Sotto un cielo tinto di blu,
pieno di stelle luccicanti,
con la luna risplendente di bianca luce,
farfalle di neve,
portate da un vento gelido
che punge il viso
e soffia sul mio cuore pieno d'amore,
si posano dolcemente sull'incantato lago ghiacciato
incoronato da montagne imbiancate.
Tutto è quiete,
tutto è candore,
tutto è purezza.
Il Sagittario, intanto,
con la sua fragorosa musicalità
che echeggia fra le strette gole,
scorre sinuoso verso
l'immenso mare dei desideri
donandomi palpiti di intensa vitalità.
Questo è Villalago,
il mio bel paese,
pieno di tristezze e di allegrie,
di silenzi e di suoni,
di fantasie e di realtà,
di apatie e di emozioni,
di sogni e di certezze
che danno all'anima mia
la voglia di amare,
la voglia di donare,
la voglia di vivere intensamente la vita.


L'elaborato seguente è stato premiato (1° classificato), per la sezione speciale dedicata alla prosa, dalla Giuria della II edizione del Concorso Regionale di Poesia Dialettale "Romualdo Parente" indetto dall'Istituto Comprensivo "Valle del Sagittario" di Introdacqua e dal Comune di Scanno. (5 giugno 2002)

COMPLICITA'


Sulle montagne di un piccolo e ameno paese, arroccato su un costone roccioso, viveva un orso dal manto color marrone scuro. Amico dell'orso era un uccellino dalle piume gialle come il sole.
In un pomeriggio estivo, l'orso narrava all'uccello come riuscisse a procurarsi il cibo negli anni passati: in alta montagna c'era il pascolo delle pecore con i pastori che gli permettevano involontariamente di predare ovini; più a valle c'erano terreni coltivati a granturco dove spesso di notte andava a mangiare. Ora, invece, l'orso era costretto a cibarsi di quel poco che trovava nei boschi: "continuando così" esclamò l'orso, "tra qualche anno mi toccherà andare giù in paese a fare la spesa!". A questo punto l'uccello scoppiò in una sonora risata e, all'imbrunire, decise di tornare a vagare fra i vicoli stretti, scarsamente illuminati e poco abitati del paese.
Giunse così l'autunno e l'orso, dopo essersi congedato dall'uccello e dopo avergli raccomandato di raccontargli tutti i fatti che sarebbero accaduti durante l'inverno, si chiuse nella sua tana e cadde in letargo.
Passò l'uggioso autunno e arrivò il freddo inverno. L'uccello, frattanto, continuava a volare fra i vicoli e a posarsi sulle tegole dei vecchi tetti e sui davanzali delle finestre. Ormai si era nel pieno della stagione più rigida dell'anno e l'uccellino passava sempre più tempo a svolazzare tra le tiepide luci dorate dei lampioni, sotto i "suppuorte" (= porte antiche) e in mezzo alle "ruve" (= stradine strette) di Villalago.
Una sera, mentre dal cielo scendevano fiocchi di neve e la bufera imperversava tanto che i "valloni fischiavano", l'uccello si posò sul davanzale di un'antica finestra e attaccò le sue piume al vetro per riscaldarsi. Senza volerlo, la sua attenzione fu attratta da una televisione che colorava e riempiva la stanza di luci e suoni. L'uccellino, avvicinandosi ulteriormente come se volesse entrare nella stanza, ascoltò queste parole: "miele Villalago… anche gli orsi ne andranno pazzi!" e sullo schermo apparve l'immagine di un orso con aria molto allegra. L'incuriosito uccellino decise di cercare altre notizie. Una sera, riparandosi dal freddo birbone sotto una "romanella" (= cornicione), origliò una interessante conversazione familiare. Tra uno starnuto e un colpo di tosse del nonno che si scaldava davanti al fuoco scoppiettante del camino, sentì la voce di un bambino che chiedeva alla mamma dove fosse fatto quel dolcissimo miele. La madre rispose che quella golosità veniva prodotta in un casolare nelle vicinanze dell'ovile e della "Crocetta", luogo dove è posizionata una piccola croce e che negli assolati e lunghi pomeriggi estivi è particolarmente frequentato da persone anziane che, sedute su una vecchia panca, si godono il fresco venticello e ricordano avventure giovanili colorite da efficaci espressioni dialettali.
L'uccello non credeva alle proprie orecchie: finalmente era riuscito a sapere dove si trovava la dolce sostanza sciropposa.
Giunta la primavera, la natura iniziava a risvegliarsi e anche le piazzette di Villalago cominciavano a rianimarsi: il vociare delle donne, il rincorrersi dei bambini, il lento ticchettio del bastone di un anziano che saliva faticosamente le scale della "Porticella", fecero capire all'uccello che era arrivato il momento di tornare a far visita all'orso. Quando si trovò davanti alla tana, sentì l'orso che russava profondamente e, per svegliarlo, cominciò a cinguettare e a picchiettare insistentemente ed intensamente. Dopo alcuni minuti l'assonnato orso si svegliò e vide il suo caro amico. Pensando che fosse ancora inverno, chiese in maniera burbera all'uccello che cosa volesse e questi gli annunciò l'inizio della primavera e che, pertanto, era finito il periodo del dolce dormire.
Dopo un ricostituente pasto a base di selvaggina che il freddo inverno gli aveva procurato, l'orso ricopri gli avanzi con terriccio e foglie: era il suo modo di metterli in dispensa. Quindi tornò dall'uccellino e, con aria incuriosita, si fece raccontare tutto ciò che era accaduto a Villalago durante i mesi di letargo.
L'uccellino esordì dicendo che erano molti i fatti e i pettegolezzi paesani, ma che aveva anche raccolto delle notizie riguardanti la golosità dell'orso. Quando quest'ultimo cominciò a dare segni di impazienza, l'uccello gli parlò del miele più buono e più dolce del mondo. Gli raccontò tutto quello che sapeva, dicendogli anche dov'era prodotto. Il goloso orso si rizzò subito sulle zampe posteriori e sarebbe voluto andare immediatamente ad assaggiare quella prelibatezza tanto che affermò: "vale più una goccia di miele che una scorta di mele!", ma, purtroppo per lui, l'uccellino gli consigliò di aspettare poiché non era ancora il periodo opportuno.
L'attesa durò fino alla terza decade di agosto quando a Villalago si stava festeggiando il protettore San Domenico.
Al tramonto un tiepido venticello portò il delizioso odore di miele ai piedi della Montagna Grande.
L'orso capì che era quello il momento giusto per agire, per raggiungere finalmente il supremo appagamento e per soddisfare la propria golosità. Muovendosi tra gli alberi della fitta boscaglia, arrivò nelle vicinanze del paese davanti a due capannoni: da uno proveniva il profumo di miele, dall'altro fiutò la presenza delle pecore.
Dopo aver fatto razzie di ovini, entrò nell'altro capannone. Questo era scarsamente illuminato da una piccola lanterna che riproduceva sul muro opposto le ombre dei goffi movimenti del plantigrado.
Sbattendo a destra e a sinistra, finalmente trovò quello che desiderava: arnie bel colme, cere, miele, api operaie, fuchi e regina, senza distinzione, furono sue graditissime prede; la fitta pelliccia e la robusta pelle non temettero le punture delle api impazzite di rabbia impotente.
In seguito l'orso tornò nel bosco e la mattina seguente raccontò tutto all'amico uccello. Questi prestò molta attenzione al racconto dell'orso che alla fine esclamò: "sono soddisfatto di aver mangiato tanto dolce, però mi dispiace rubare mentre i Villalaghesi festeggiano. Ma tu devi capire che qui, a Montagna Grande, le cose non vanno bene! Con il livellamento delle stagioni c'è poca acqua e purtroppo poco cibo: i tuberi, le bacche e i frutti di bosco si seccano subito oppure non fioriscono. Caro amico, cosa mangio? Prima potevo scendere e fermarmi a valle perché le zone vicine a Villalago erano piene di granturco. Sapessi come era buono, coltivato senza additivi e secondo natura con l'esperienza e la bravura dei contadini paesani; sapessi come era faticoso per i "cuzzelicchi" (= contadini) preparare ad arare i campi; sapessi come io, gli altri animali, i contadini e i pastori abbiamo convissuto per moltissimi anni strappando dalle terre aride il nostro sostentamento, condividendo le impreviste difficoltà dovute a siccità o ad inverni troppo freddi. C'è sempre stata fra gli uomini e gli animali di queste bellissime e verdeggianti montagne una specie di complicità e di reciproca tolleranza. Ora tutto questo non c'è più! Se scendo a valle ed entro furtivamente a Villalago, con tutti i rischi connessi ad una situazione poco naturale, significa che anche quassù, a Montagna Grande, qualcosa sta cambiando e l'uomo, che è l'essere più intelligente della natura, dovrà prima o poi rendersi conto di questa disperata situazione. Spero solo che non se ne accorga troppo tardi, altrimenti di me resterà soltanto un ricordo. Ed ora, amico uccellino, ti saluto e torno nella mia natura silenziosa e incontaminata… Ciao amico, ciao…".


L'EMIGRANTE

La notte fova fenita,
le chiarore de l'alba
annascunneva la luna argientata,
mentre i prime tiepide raggi de le sole
scallevane le paese addurmite
sopra le custone de la muntagna.
Fova ne iuorne de profumata primavera:
i campe ce revestevane de gnuove bellezze,
le viente purteve 'nghe isse
petale culurate,
pensere e sentemiente 'nfenete,
le core meje triste e agitate
steva chiuse dentre la valigia de cartone
attaccata 'nghe ne spache rannudate.
So remase
j' uocchie 'mbusse de l'amore,
so remase
le care paese meje
pe trouvà, a co avetra vanna,
occasione de future i de speranze.
Ecche tienghe tutte,
ma nen tienghe niente:
me manca l'addore
de le pane appena sfurnate,
le dolce suone de la campana
che ce sente pe tutte le paese,
la fresca acqua de la funtanella
de vicine alla fonte,
la vita de le vecenate
che nen me faceva sentì maie suole,
i quil' amichevole salute:
cumma' steje?
andò si state?
andò veie?
Abberretate da la malinconia,
tutte me manca.
Suolamente la nostalgia,
che me recorda tante cose,
appiccia nell'anema meje
emozione intense i profonde
i me da la forza d'aspettà,
d'aspettà n'avetra primavera,
la primavera de le remeneje.
L'EMIGRANTE

La notte era finita,
il chiarore dell'alba
nascondeva la luna argentata,
mentre i primi tiepidi raggi del sole
scaldavano il paese addormentato
sul declivio del monte.
Era un giorno di profumata primavera:
i campi si rivestivano di nuove bellezze,
il vento portava con sé
petali colorati,
pensieri e sentimenti infiniti,
il mio cuore triste e tumultuoso
era chiuso nella valigia di cartone
legata con uno spago riannodato.
Ho lasciato
gli occhi bagnati dell'amore,
ho lasciato
il mio caro paese
per cercare, altrove,
occasioni di futuro e di speranza.
Qui ho tutto,
ma non ho niente:
mi manca il profumo
del pane appena sfornato,
il dolce suono della campana
che si spande per il paese,
la fresca acqua della fontanella
della piazza,
la vita del vicinato
che non mi faceva sentire mai solo,
e quell'amichevole saluto:
come stai?
dove sei stato?
dove vai?
Avvolto dalla malinconia,
tutto mi manca.
Solamente la nostalgia,
che evoca in me tanti ricordi,
suscita nel mio animo
emozioni intense e profonde,
e mi dà la forza di aspettare,
di aspettare una nuova primavera,
la primavera del ritorno.


Il seguente elaborato è stato premiato in data 30/05/2003 al 3° concorso di Poesia Dialettale "Romualdo Parente" per la sezione speciale dedicata alla prosa. Il Concorso è stato indetto dal Comune di Scanno e dall'Istituto Comprensivo "Valle del Sagittario".

MALENOME


C'era una volta un paese sospeso fra le fresche acque lacustri e l'immenso cielo terso. Era cinto da montagne sempre verdi che sembravano erette dalla natura a protezione di tanta bellezza.
Le case più antiche erano arroccate su dirupi e precipizi e da lì si potevano osservare meravigliosi scenari mentre le altre degradavano seguendo l'inclinazione del fianco della montagna.
La vita, in questo paese dalle origini medievali, si svolgeva con semplicità: gente povera ma operosa e ricca di sentimenti, gente semplice, alacre e provata dal greve lavoro.
Gli abitanti svolgevano i più svariati mestieri: il fabbro, il pecoraio, il contadino, il ciabattino, il mugnaio, mentre le donne amorevolmente si occupavano delle loro famiglie. In questo paese così vitale e laborioso, regnava sovrana l'omonimia che generava confusione e incertezza. Ciò era dovuto al fatto che molti paesani portavano lo stesso nome e cognome. Tradizione e consuetudine avevano fatto sì che ai neonati si riproponesse il nome del nonno, dello zio, del compare, del Santo Patrono e di altri Santi cui la famiglia era devota.
Riuscire a identificare e ad individuare i paesani a volte costava troppo tempo e fatica, perché al nome e cognome si doveva aggiungere anche la paternità o la maternità. Così si complicava ulteriormente la già caotica situazione. Non si sapeva come venirne a capo.
La collettività, per facilitare l'individuazione degli omonimi paesani, iniziò ad affibiare a questi dei soprannomi. Soprannome perché non era il nome originario, ma solo un appellativo, non certificato da regolamenti anagrafici, che permetteva il riconoscimento di una determinata persona. Tuttavia era veritiero e descriveva con una parola, e solo con una parola, una qualità o un difetto di una persona.
A volte era cinicamente ironico, altre volte era acre dileggio, altre volte ancora era una forma di apprezzamento o di affetto, la maggior parte delle volte era scherzoso: le ciuoppe (se aveva una zoppia), le ferrare (se era un fabbro), la roscia (rossa dal colore dei capelli), la volpe (persona furba e scaltra), Menchille (diminutivo affettuoso di Domenico), Sciopenne (da Chopin il musicista), la contessa (portamento da nobildonna).
Ovviamente fra la collettività vi erano dei personaggi che avevano una spiccata attitudine a "nomignolare" i paesani. Uno di questi era chiamato appunto Malenome, perché era particolarmente incline a soprannominare. Essendo poco dedito al lavoro, molto attento ad aggregarsi ai crocchi di piazza e di vicinato e assiduo frequentatore di cantine (luogo in cui si vendeva, si "degustava" vino e si raccontavano fatti e fatterelli e, quando i fumi del vino cominciavano a dare i primi segni,se ne inventavano di sana pianta), sapeva tutte le notizie del paese e da un episodio, un avvenimento o un'inezia riusciva a cavarne fuori un nomignolo.
Così successe che un giorno Malenome si trovò a passare davanti alla chiesa e, avendo saputo che si stava procedendo alla sua restaurazione, curioso decise di entrare. Davanti ai suoi occhi, oltre alle note statue dei Santi, trovò un'imponente impalcatura sulla cui sommità era sdraiato supino un uomo di mezza età. Malenome iniziò a muoversi tra i disordinati banchi della chiesa e, trovata la giusta angolazione visiva, riconobbe l'uomo che era sul ponteggio: si trattava di Alfredo.
Malenome rimase per alcuni istanti immobile e stupito nel vedere con quanto impegno Alfredo stendeva i colori sulla volta illuminata dai raggi del sole che filtravano dal rosone gotico. La partecipazione emotiva era talmente intensa che sembrava che intingesse i pennelli nel suo cuore.
Ogni tanto uno schizzo di colore diverso maculava il volto di Alfredo; ma lui non si preoccupava di ciò, era troppo attento alla buona riuscita di ogni piccolo particolare e di ogni sfumatura dell'affresco.
Malenome, dopo aver assistito alle ultime pennellate e agli ultimi ritocchi operati da Alfredo, rimase profondamente colpito dalla bellezza dell'opera e decise di affibiargli, anche perché meritato, il soprannome di Pettore (=pittore) che da quel momento avrebbe sostituito l'originale nome di Alfredo.
In una giornata estiva Malenome si affacciò alla finestra: vide che il sole era intenso e che il cielo era limpido. Così decise di andare a passeggiare in campagna. In quel periodo nei campi si praticava la mietitura. Le spighe di grano, ormai ben dorate e ondeggianti al vento, erano pronte per essere falciate e raccolte.
Malenome aveva visto molte volte nella sua vita questa operazione faticosa e logorante, ma ogni anno era affascinato sempre di più da quella attività che gli ricordava la sua giovinezza. Così restò molto tempo ad osservare donne e fanciulle che diligentemente raccoglievano le spighe che poi venivano legate insieme e formavano grandi mazzi, detti "manuoppele", che raggruppati formavano le "reglie". Verso mezzogiorno le donne, col volto stanco e imperlato di sudore, cercavano riparo dal sole estivo sotto l'ombra di qualche albero.
Qui si dissetavano e consumavano un pasto povero prima di rimettersi al lavoro. Proprio durante questa pausa, da una piccola e scoscesa strada campagnola, apparve la figura di un uomo molto alto e dalla corporatura imponente. Da lontano fu difficile per le donne riconoscere chi fosse, poiché il suo viso era seminascosto dal cappello a larghe falde che lo riparavano dai cocenti raggi del sole. Avvicinatosi, le donne videro che quell'uomo era Francesco.
La più vispa e fantasiosa delle ragazze esclamò: "E' avete i gruosse cummà na casa" (= è alto e grosso come una casa).
Francesco, dopo aver scambiato alcune parole con le donne, riprese a camminare per la polverosa stradina.
Malenome, che non aveva perso un attimo di quella scena, sintetizzò la predetta esclamazione con una parola sola ma efficace: Terzopiano. Così Francesco fu ribattezzato con il soprannome che lo avrebbe contraddistinto nel tempo.
Quasi tutti i soprannominati accettavano o facevano finta di accettare i soprannomi che li seguivano per il resto della vita e che li facevano poi rimanere nella memoria storica del paese. Anche perché poco o niente potevano fare per evitarlo. Infatti vi poteva essere solo un rifiuto interiore al nomignolo da parte dell'interessato ma niente di più: il soprannome era un marchio indelebile e di origine controllata dalla comunità. Ma c'era anche chi si offendeva poiché pensava che l'epiteto potesse rovinare la sua reputazione. E questo è il caso di un certo Antonio, detto Pisciotte. Antonio doveva redigere un atto dal notaio e occorrevano pertanto dei testimoni. Passando in piazza notò (e come poteva essere altrimenti) Malenome che, seduto sugli "schialoni" (= gradoni), osservava il gran movimento che c'era: da un lato una piccola bancarella con poca frutta esposta, mentre dall'altro c'era una bancarella con più oggetti esposti e molto frequentata dai paesani.
C'era un gran via vai di donne: alcune erano soddisfatte per aver fatto un affare, altre invece, tra cui una donna anziana con un "maccature" (= fazzoletto) nero in testa, inveivano con il venditore perché l'oggetto acquistato in altre occasioni aveva fatto una "mala rescita" (= cattiva riuscita).
C'erano gruppi di donne che parlottavano mentre i bambini si divertivano rincorrendo un cerchio o giocando a campana.
I pochi uomini, quasi tutti anziani, erano seduti vicino alla fontana da dove ogni tanto si dissetavano e si rinfrescavano.
Malenome osservava soprattutto la bellissima scalinata, formata da "pellante" (= piccoli pezzi di pietra) riluccicanti ai raggi del sole, che portava alla parte alta del paese. Dalla gradinata discendeva il banditore che aveva appena annunciato a tutti i vicinati che "alla piazza è arrevate le piattare che venne piatte, becchere, tielle, flessore e pisciature a piezze basse" (=in piazza è arrivato il piattaio che vende piatti, bicchieri, tegami, padelle e vasi da notte a prezzi bassi).
Antonio si avvicinò a Malenome e gli disse: "avescia i' a le nutare pe n'atte, me vu accumpagnà?" (= dovrei andare dal notaio per un atto, mi vuoi accompagnare?). Malenome, immerso nelle sue osservazioni, rispose: "cummà te puozze dice de none proprie a teje che me si fatte tante favore!" (= come posso dirti di no proprio a te che mi hai fatto tanti favori).
Così i due andarono il giorno seguente dal notaio. Dopo una breve attesa, Malenome e Antonio furono fatti accomodare nell'ufficio notarile. La scrivania, dove il legale redigeva gli atti, era al centro dello studio arredato in stile quattrocentesco. Quando Antonio e Malenome furono seduti di fronte al notaio, quest'ultimo, oltre alle generalità, chiese ad Antonio, per rendere l'atto più preciso, se avesse per caso un soprannome. Antonio, non volendo rovinare la sua nomea davanti al notaio e al testimone, rispose che egli era una persona seria, stimata, ben considerata da tutto il paese e che pertanto non poteva avere un soprannome. Allora il notaio, che conosceva vizi, virtù e "cufecchie" (= pettegolezzi) del paese, si alzò dal suo posto, si avvicinò ad Antonio e, dandogli due pacche sulla spalla, esclamò: "E bravo a Pisciotte!" suscitando così la beffarda e omerica risata di Malenome.



STEFANO SCIORE

La nonna me'

La nonna me'
Sta ascisa a quela sevecitella
n ' da ne mucchiariell ' neir ',
che la scheina schiorta gnanz '
e che i pid' dentr 'ai
bebusc ' fatt' a ciavatta
che le man ' longh ' e ragnellos '
vol' ancora faì 'coccosa
e cuscè cerca che
pazienza la crona
p' pregà.
Le labbra c' muoven '
Ma n' c' sent ' nient '
Sol ' iuocch ' so visp ' e luccecant '
E guardan ' luntan '
Che passion ' e rassegnazion '.
La nonna mia

La nonna mia
sta seduta a quella sediolina
come un mucchietto di colore nero
con la schiena piegata in avanti
e con i piedi dentro alle
pantofole di pezza piegate e portate a ciabatta
con le sue mani lunghe e rugose
vuole ancora fare qualcosa
e cosi cerca con pazienza il rosario
per pregare.
Le labbra si muovono
ma non emettono nessun suono
solo gli occhi sono vivaci e lucenti
e si perdono con passione negli antichi ricordi
rassegnandosi alla sua condizione di vita che volge
ormai alla fine.


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